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"Siamo arrivati ad inquinare anche Marte!11!!1!" Pochi giorni fa, dopo la condivisione di una foto simile, nei commenti si è scatenato un putiferio. Una gara a chi commentava più ferocemente parlando di inquinamento, di spazzatura, di rifiuti, di "ah signora mia, dove andremo a finire!". Tutto per una immagine che ritrae lo scudo termico posteriore del rover Perseverance schiantato su Marte (come previsto) dopo che il suo compito era stato eseguito. Ma ha senso parlare di inquinamento di Marte in questi termini? Risposta veloce: no, zero. Risposta meno veloce: no. Pur capendo tutto il terrore mentale che si sviluppa nelle nostre capocce quando vediamo qualcosa di distrutto e abbandonato a se stesso (e in quanto abitanti della Terra va benissimo così), la cosa non ha molto senso quando si parla di contesti diversi. E in questo caso di Marte. "L'inquinamento è un'alterazione dell'ambiente, naturale o dovuta ad antropizzazione, da parte di elementi inquinanti. Esso produce disagi temporanei, patologie o danni permanenti per la vita in una data area, e può porre la zona in disequilibrio con i cicli naturali esistenti." Se partiamo dalla definizione di inquinamento ci accorgiamo presto che declinare questo termine su un pianeta diverso presenta dei problemi logici non da poco. Innanzitutto non si può parlare di un ambiente vivo su Marte. Ci sono possibilità che lo sia stato in passato, stiamo studiando se qualcosa è sopravvissuto ad oggi, ma di sicuro non è abbastanza vivo da poter essere intaccato da qualche pezzo di metallo o fibra di carbonio lasciato qua e là. Per quanti vi suoni strano, settati con la mentalità terrestre, è così. Marte è morto, almeno nel senso macroscopico del termine. Se un domani trovassimo qualche paramecio sopravvissuto sarebbe una conquista enorme, allora potremmo chiedergli cosa ne pensa dei pochi rottami lasciati lì, pronti per essere ospitati in musei del futuro. Un po' come le navi lasciate nei mari di mezzo mondo. Il nostro mondo, vivo. Marte, alla fine dei conti è un deserto inospitale già incredibilmente mortifero di suo. [Continua nei commenti]
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Rita Levi-Montalcini (Torino, 22 aprile 1909 – Roma, 30 dicembre 2012) è stata una neurologa, accademica e senatrice a vita italiana, Premio Nobel per la medicina nel 1986. Nacque in una famiglia ebrea sefardita, da Adamo Levi e Adele Montalcini. I genitori, persone colte e istruite, instillarono fin da subito nei propri figli l’apprezzamento per la ricerca intellettuale. Nonostante l'opinione del padre, avente una concezione vittoriana dei ruoli maschili e femminili, nell'autunno del 1930 si iscrisse all'Università di Torino per studiare medicina; questa scelta presa a seguito della prematura morte della sua amata governante ammalatasi di cancro. Nel 1936 l’allora rettore dell'Università di Torino, Silvio Pivano, conferì a Rita Levi la laurea in Medicina e Chirurgia con la votazione di 110 e lode, si specializzò successivamente in neurologia e psichiatria. A seguito delle leggi razziali del 1938, in quanto ebrea sefardita, Montalcini fu costretta a emigrare in Belgio dove si trovavano già il suo maestro Giuseppe Levi e sua sorella Anna. Sino all'invasione tedesca del Belgio fu ospite dell'istituto di neurologia dell'Università di Bruxelles dove continuò i suoi studi sul differenziamento del sistema nervoso. Nel dicembre 1939 la scienziata tornò a Torino dove, per proseguire le sue ricerche, allestì un laboratorio domestico situato nella sua camera da letto. La situazione politica di quel tempo è assai complessa e le possibilità di continuare gli studi in laboratori adeguati, purtroppo scarse. Nel 1943 a causa dell'invasione dell'Italia da parte delle forze armate tedesche, iniziò per la scienziata un pericoloso viaggio che si concluse a Firenze, dove fu ospite della Fam. Lurini. Lei e i suoi familiari sopravvissero all'Olocausto restando nascosti nel capoluogo toscano sino alla liberazione della città. Terminata la guerra tornò con la famiglia a Torino (1945) dove riprese gli studi accademici. [Continua nei commenti]
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Ed ecco il video in alta definizione del transito di Phobos sul disco solare. Non è una novità che anche su Marte avvengono eclissi solari, così come non è una novità che un rover sulla superficie di Marte riprende il transito di Phobos, ma è sempre interessante , sia scientificamente che non, ricevere tali immagini. Già nel 2004, Spirit e Opportunity avevano fotografato, in una serie di scatti, il transito; Curiosity, con la sua Mastcam, nel 2019, ha registrato il primo video. Perseverance grazie alla sua Mastcam-Z, una versione migliorata e dotata di zoom rispetto a quella di Curiosity, ha fornito il video più zoommato e con il maggiore frame rate fino a ora di un'eclisse solare dovuta a Phobos. Un maggiore dettaglio è stato raggiunto anche grazie all'ultilizzo di un filtro solare, che funge da "occhiali da sole" per la camera: si possono notare perfettamente i dettagli della superficie come creste e dossi. Sul Sole, invece, si possono vedere le macchie solari (relative al 2 aprile). Ogni volta che queste eclissi vengono osservate, permettono agli scienziati di misurare piccoli spostamenti dell'orbita di Phobos nel tempo, dovuti all'azione reciproca delle forze mareali. Studiare quanto Phobos si sposta nel tempo rivela informazioni su quanto siano resistenti la crosta e il mantello e quindi da che tipo di materiali sono composti. Tra qualche decina di milioni di anni Phobos si schianterà sul pianeta rosso o si frammenterà e i frammenti cadranno sulla superficie. Lo studio dei parametri orbitali permette di affinare le stime di quando questo evento catastrofico avverrà. Credit: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS/SSI [@gabriele_bertinelli]
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Se qualcun dovesse chiedervi "Senti, ma qual è la cometa più grossa mai scoperta?" "Ma come? Non hai letto il post di Link4Universe che ha scritto Gabriele a riguardo?" "Eh no, non credo sia ancora uscito" "Ah, già, forse è perché lo sto scrivendo in questo momento. Vabbè, il suo nome è C/2014 UN271 (Bernardelli-Bernstein). È stata osservata nel 2014, ma analizzando osservazioni precedenti si è visto che era già stata immortalata nel 2010. Al momento si trova a circa 20.2 AU e raggiungerà il suo punto più vicino al Sole, a 10.9 AU (poco oltre l'orbita di Saturno) nel gennaio 2031 (ha un periodo di circa 3 milioni di anni). Grazie a osservazioni svolte con Hubble si è riusciti a misurare la dimensione del nucleo (la palla di rocce e ghiaccio da cui dipartono chioma e coda): 130 km. Il suo nucleo sarebbe 50 volte più grosso della maggior parte dei nuclei conosciuti, mentre la sua massa è stimata a circa 500.000.000.000.000 (500mila miliardi) di tonnellate. La parte complicata nel misurare le dimensioni del nucleo è quella di isolarlo dalla nube di polveri e gas che circonda la cometa. La cometa è però ancora troppo lontana perché Hubble possa risolvere il nucleo; quindi, è stato realizzato un modello della coma circostante che è stato adattato alla cometa, potendo così isolare il nucleo. Dalle analisi dell'albedo si è visto che probabilmente il nucleo ha un colore più scuro di quello del carbone. Le comete arrivano da una grande riserva, ipotizzata, chiamata Nube di Oort. Questa remota zona del Sistema Solare non è ancora stata osservata direttamente perché gli oggetti che la dovrebbero popolano sono troppo deboli. Però, le comete che si addentrano nel Sistema Solare interno, tra cui C/2014 UN271, forniscono indizi sull'esistenza di una regione si estende da alcune centinaia di volte la distanza tra il Sole e la Terra ad almeno un quarto della distanza delle stelle più vicine al Sole." "Wow" "Ecco, ora sai il nome dalla cometa più grande mai scoperta finora!" "Grazie <3" Credit: NASA, ESA, Man-To Hui, David Jewitt, Alyssa Pagan [@gabriele_bertinelli]
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