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Sono @frankburgay, laureato in chimica dell'ambiente e con un dottorato in Cambiamenti Climatici. Qui parlo di #chimica , #ambiente e #climatechange
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Quando per la prima volta Andrea Spolaor, il mio tutor durante il dottorato, mi ha mostrato i dati, non avevo colto le potenzialità che ci stavano dietro. Piano piano, però, ho iniziato a capire l'intuizione di Andrea e che sì, a tutti gli effetti, aveva fatto una bella scoperta! Oggi, quattro anni dopo quel giorno, dopo mesi passati a studiare e dopo aver coinvolto ricercatori spagnoli e argentini per validare l'ipotesi iniziale, siamo arrivati al momento più bello per uno scienziato: pubblicare i propri risultati su una rivista ad alto impatto. E' quello che siamo riusciti a fare, indagando per la prima volta il ruolo che la formazione del buco dell'ozono ha avuto nei confronti di un elemento particolare, lo iodio. Lo strato di ozono stratosferico ha l'importante funzione di assorbire la radiazione ultravioletta (UV) proveniente dal Sole. Se, come è avvenuto, c'è meno ozono nella stratosfera, a causa della massiccia emissione di sostanze che lo distruggono, come i clorofluorocarburi, la sua capacità di assorbire la radiazione UV sarà minore, mentre maggiore sarà la quantità di radiazione UV che riuscirà a raggiungere la superficie. Attraverso l'analisi di una carota di ghiaccio prelevata in Antartide, siamo riusciti a dimostrare come l'aumento di radiazione UV registrato a partire dal 1975 e legato alla comparsa del "buco dell'ozono", abbia determinato una maggiore ri-emissione dello iodio dalla neve all'atmosfera. Lo iodio è un elemento che ha un ruolo importante nel bilancio energetico terrestre e questa scoperta apre nuove ed interessanti prospettive di ricerca. Tra le tante, sapendo il legame tra iodio e concentrazione di ozono stratosferico, sarà possibile scoprire, su carote di ghiaccio più profonde, se nel passato del nostro Pianeta si sono formati altri "buchi dell'ozono". Inoltre, questo lavoro ci permette anche di fare una riflessione su quanto gli effetti dell’uomo sull’ambiente, anche se opportunamente mitigati attraverso l’adozione di Protocolli internazionali, si possano protrarre per molti decenni e con conseguenze ancora in larga parte sconosciute. #chimicaambientale #ambiente #antartide

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“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.” Così scriveva il filosofo contemporaneo Noam Chomsky in quello che è passato alla storia come "il principio della rana bollita", ovvero la capacità dell'essere umano di adattarsi a condizioni sgradevoli, senza reagire come invece dovrebbe. Lo stesso principio si può applicare al cambiamento climatico in corso. Ci stiamo gradualmente abituando a temperature via via sempre più alte. Chi di voi si ricorda di quanto calda è stata l'estate del 2012? O del 2000? O del 1990? Probabilmente nessuno, perché la nostra normalità, legata anche alla nostra memoria, si spinge indietro soltanto fino agli ultimi 2 o 8 anni, come ha dimostrato un recente studio pubblicato su PNAS. Ogni estate ci sembra faccia caldo, ma la relazioniamo alle estati appena passate, non certo a quelle di decine di anni fa: semplicemente ce ne siamo dimenticati. Per questo, il modo migliore per prendere consapevolezza di questo cambiamento è guardare i ghiacciai. Loro sono la migliore sentinella del cambiamento climatico in corso ed il loro ritiro, ormai inarrestabile, è il modo migliore per comprendere i danni che stiamo provocando all'ambiente. Probabilmente nemmeno le alluvioni, come quella che sta interessando la Sicilia in questi giorni, hanno lo stesso effetto. Come la rana bollita, rischiamo di abituarci a questa nuova "normalità", con la grave conseguenza che smettiamo di reagire. #cambiamentoclimatico #climatechange #clima

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Avete appena vinto 1 milione di euro. Non dovrete più lavorare nella vostra vita: che sensazione meravigliosa! Iniziate quindi a prelevare il denaro per togliervi gli sfizi più diversi: una casa con piscina, un'automobile di lusso e viaggi che prima di allora non immaginavate di poter fare. Arriva però il momento in cui il conto in banca inizia a soffrire. Anziché volare ogni giorno con il vostro jet privato, siete costretti a cercare qualche offerta last-minute di Ryanair. La vostra Tesla ha costi di gestione non più compatibili con le vostre finanze e ripiegate su una Panda a metano. Il vostro standard di vita sta peggiorando rispetto a prima e sarà destinato a peggiorare sempre di più fino a quando non avrete più soldi ai quali attingere. Fuor di metafora, è quello che è avvenuto dall'inizio della rivoluzione industriale ad oggi, quando cioè la combustione dei combustibili fossili ha permesso alla nostra società di prosperare e svilupparsi, ma ha anche determinato un peggioramento delle condizioni ambientali che, se non opportunamente mitigate, mettono a rischio la sopravvivenza stessa dell'essere umano. Stiamo esaurendo il nostro credito in banca. Stiamo esaurendo la quantità di anidride carbonica che possiamo immettere in atmosfera prima che le conseguenze siano irreparabili. In altri termini, stiamo esaurendo il nostro "carbon budget". Al ritmo di emissioni attuali, ci restano soltanto 14 anni prima di terminare il nostro "carbon budget" e dire definitivamente addio all'obiettivo di contenere l'aumento delle temperature medie globali entro 1.5°C. Tanto più ritarderemo il picco emissivo, tanto meno tempo avremo a disposizione per decarbonizzare le nostre economie, con la conseguenza che questo processo sarà sempre più complesso. L'alternativa è "risparmiare", ovvero emettere negli anni sempre meno CO2 in atmosfera per allungare l'orizzonte temporale entro il quale dovremo arrivare ad emissioni nette zero e, al contempo, "lavorare" per fare in modo che quelle emissioni che inevitabilmente continueremo a produrre, vengano catturate dall'atmosfera. #cambiamenticlimatici #cop26

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Se si sceglie un thriller, c’è a chi non piacciono i thriller, se si sceglie una commedia c’è chi non ha voglia di ridere e spesso a vincere è la non-scelta. Quante volte vi è capitata una situazione simile quando dovevate scegliere un film in compagnia dei vostri amici? Per certi versi, la stessa situazione si ripete da 25 anni con le COP, le Conferences of Parties, che riuniscono le 196 nazioni che hanno firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. In ballo non c’è la scelta di un film, bensì la salvaguardia del Pianeta. Purtroppo, una decisione definitiva e vincolante che preluda ad azioni concrete per un rapido abbandono delle fonti fossili, stenta ad arrivare, anche se non sempre si è trattato di un inutile “bla bla bla”. Ad esempio, la sottoscrizione del Trattato di Parigi (COP21) ha determinato l'adozione di specifiche politiche climatiche in grado di ridurre di 0.7°C le temperature previste entro la fine del secolo (+2.9°C) rispetto ad uno scenario "senza" Trattato di Parigi (+3.6°C). Ancora non abbastanza, ma sicuramente un buon auspicio. La COP26 è fondamentale perché rappresenta l’occasione per discutere gli obiettivi di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi che vi parteciperanno e per presentarne di nuovi, auspicabilmente più ambiziosi. Questo è un aspetto essenziale in quanto a giudicare dai piani che saranno presentati sarà anche possibile capire quanto concretamente si potrà ancora parlare di mantenere il riscaldamento entro i 1.5°C rispetto al periodo pre-industriale. I piani prendono il nome di Nationally Determined Contributions (NDCs) e per essere in linea con gli obiettivi di Parigi, devono prevedere un taglio del 45% delle emissioni di gas serra (rispetto al 2010) entro il 2030. Secondo diversi analisti gli NDC che saranno presentati non saranno in grado di garantire al mondo di rimanere entro gli 1.5°C, il che potrebbe già di per sé essere un fallimento. Nel frattempo, la COP26 potrebbe favorire politiche attive nell'abbandono del carbone e nella decarbonizzare i trasporti che potrebbero essere propedeutiche a politiche climatiche più ambiziose nel prossimo futuro. #cop26

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Questa puntata è interamente dedicata ai Premi Nobel per la Fisica e della Chimica 2021. Parleremo delle straordinarie scoperte di Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann che hanno gettato le fondamenta per la comprensione del clima terrestre evidenziando in maniera inequivocabile, da un lato il ruolo dell'anidride carbonica nel causare un aumento delle temperature globali, dall'altro come sia il contributo umano a causare l'attuale cambiamento climatico. Ne discuteremo ripercorrendo la storia della scienza del clima. Sarà anche l'occasione per approfondire il Premio Nobel per la Chimica conferito a Benjamin List e David MacMillan per la loro capacità di pensare "out of the box" e vedere ciò che gli scienziati del tempo non furono in grado di notare: la capacità da parte di piccole molecole organiche di agire da catalizzatori. Grazie al loro intuito, fondarono la moderna organocatalisi, con implicazioni importanti specialmente in ambito farmaceutico. Infine, insieme a Dario Corbisiero, post-doc presso l'Università di Bologna, cercheremo di approfondire le scoperte di List e MacMillan indagando quali sono le limitazioni di questi nuovi catalizzatori e quali difficoltà è ancora necessario superare per arrivare ad una loro applicazione su larga scala. Potete ascoltare il Podcast "Cosa Bolle in Beuta", su Spotify (link in bio), Apple Podcast e Google Podcast. #podcast #premionobel #chimica

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Benjamin List e David MacMillan, i padri della moderna "organocatalisi" hanno rivoluzionato il modo in cui si creano nuove molecole sfruttando dei processi innovativi e compatibili con l'ambiente. Affinché alcune reazioni possano avvenire, queste hanno bisogno di essere accelerate da opportuni catalizzatori. E' quello che avviene naturalmente nel nostro organismo, dove gli enzimi sono i responsabili di questi processi. I catalizzatori sono fondamentali anche per la sintesi di farmaci, plastica ecc... Quelli più utilizzati erano gli enzimi stessi ed i metalli. Gli enzimi sono molecole caratterizzate da centinaia di amminoacidi. Tuttavia, è solo una piccola parte dell'intera struttura che entra effettivamente in gioco quando è chiamata a formare e rompere dei legami chimici. Da qui, la domanda: abbiamo davvero bisogno di un enzima intero per velocizzare una determinata reazione chimica, oppure bastano i pochi amminoacidi effettivamente coinvolti nel processo? A trovare la risposta fu List che dimostrò l'efficacia di un singolo amminoacido (la prolina) nell'agire da catalizzatore in una reazione. Se questo fu un risultato straordinario, le buone notizie non finirono lì. In natura esistono molecole che sono identiche come composizione, ma sono una l'immagine speculare dell'altra e non sono sovrapponibili. Una versione delle due può esercitare una funzione, mentre l'altra ne può esercitare un'altra. Quello che List scoprì, al di là del fatto che la prolina aveva effettivamente funzionato da catalizzatore, fu che grazie al suo utilizzo, tra le due possibili versioni di molecole una speculare all'altra, se ne formava preferenzialmente una delle due. Contemporaneamente a List, MacMillan stava studiando come, molecole alternative a quelle contenenti metalli, potessero agire da catalizzatori. I risultati, ottenuti studiando un'altra reazione, furono identici a quelli di List. Le principali applicazioni si osservano in ambito farmaceutico, laddove la necessità di avere una specifica versione della molecola e non la sua immagine speculare è fondamentale dal momento che esse possono avere effetti diametralmente opposti sul nostro organismo. #premionobelchimica

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Nella nuova puntata di Cosa Bolle in Beuta, ci trasferiamo in Artico. La regione artica è infatti la più vulnerabile per quanto riguarda i cambiamenti climatici, riscaldandosi ad una velocità tra le 2 e 3 volte superiore rispetto alla media globale. Cominciamo questo appuntamento con un aggiornamento sullo stato di salute del ghiaccio marino che, a metà Settembre, ha raggiunto la sua minima estensione annuale. Un valore che, se confrontato con quello dell'anno scorso, risulta tutto sommato confortante, sebbene si inserisca in un trend di forte decrescita. I motivi, come spiegano i ricercatori, non sono tanto legati ad una inversione di tendenza, quanto piuttosto a condizioni meteorologiche particolari che hanno rallentato la velocità di ritiro del ghiaccio marino durante questa estate. La nostra avventura polare ci porta poi in Groenlandia a scoprire come la fusione della calotta ha messo fino ad un'epoca di rilevazioni scientifiche in quello che era Swiss Camp, un campo remoto ideato dal Prof. Koni Steffen, completamente smantellato questa estate. Da luogo per studiare il clima, a luogo vittima del clima che cambia. Un'esperienza di ricerca dal triste epilogo, ma che ha dato molto alla comunità scientifica nel corso dei suoi 30 anni di storia. Infine, dopo aver scandagliato gli oceani e i ghiacciai, ci occupiamo di permafrost. Uno studio pubblicato recentemente su Nature Climate Change, ha evidenziato i rischi ai quali gli ecosistemi artici sono esposti a causa della fusione del permafrost in virtù del possibile rilascio di virus, batteri, radionuclidi e, più in generale, di tutti quegli inquinanti che nel corso dei decenni si sono accumulati alle alte latitudini. Una possibile bomba ad orologeria? Si sa ancora troppo poco, ma i rischi associati allo scongelamento del permafrost e al rilascio di inquinanti e microorganismi potenzialmente patogeni potranno stressare ulteriormente un ecosistema già fragile e fortemente minacciato dall'aumento delle temperature medie globali. Ascolta gratuitamente il podcast su Spotify: cerca "Cosa bolle in beuta?" oppure clicca sul link in BIO. #chimica #podcast #scienza #sciencepodcast #cambiamentoclimatico

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Il dragone cinese, che dalla sua bocca non sputa fuoco, ma anidride carbonica, ne è, ad oggi, il maggiore emettitore a livello globale. Con circa 10 miliardi di tonnellate emesse ogni anno, pesa per circa il 30% sulle emissioni globali di questo gas climalterante. Stando alle dichiarazioni del presidente Xi Jimping e alla luce dell'ultimo piano quinquennale, il gigante asiatico dovrebbe raggiungere un picco emissivo entro il 2030 per poi arrivare ad emissioni nette zero entro il 2060. E' una strada realistica? A rispondere è l'Agenzia Internazionale per l'Energia (l'IEA) che, nel suo ultimo rapporto: "An energy sector roadmap to carbon neutrality in China" evidenzia quali dovranno essere i cambiamenti strutturali affinché questo obiettivo possa essere raggiunto. Attraverso azioni mirate nel settore energetico come l'efficientamento, il ricorso alle rinnovabili e l'abbandono dei combustibili fossili, secondo l'IEA sarà possibile raggiungere gli obiettivi, anche grazie ad una posizione privilegiata che la Cina già ricopre sia in termini di investimenti in ricerca e sviluppo (nel 2019 è stato il Paese che ci ha investito di più al mondo), sia per numero di brevetti in settori strategici come i veicoli elettrici, pannelli fotovoltaici, sistemi di stoccaggio di energia ecc... Il futuro della Cina è quindi meno nero petrolio e carbone, e più solare, eolico, idroelettrico e nucleare. In effetti, se, stando alle proiezioni dell'IEA, le rinnovabili copriranno fino all'80% del fabbisogno elettrico nel 2060 (ed il 45% sul totale sarà rappresentato dai pannelli fotovoltaici), la potenza nucleare installata quintuplicherà, arrivando a pesare per circa un 15% sul totale (dall'attuale 2.7%). Questa straordinaria rivoluzione energetica, contribuirà a creare 3.6 milioni di nuovi posti di lavoro (se ne perderanno 2.3 milioni legati al mondo fossile), di cui il 55% di alto livello professionalizzante e tecnico. Insomma, almeno sulla carta, la decarbonizzazione della propria economia conviene alla Cina. Le grandi incognite che rimangono sono: rispetteranno i piani? Le tecnologie sulle quali si dovrà basare questa transizione (es. batterie) saranno pronte nel prossimo futuro?

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Torna dopo più di un mese di assenza, il podcast di Amo la Chimica, "Cosa bolle in beuta". Perdonate l'assenza e la poca costanza, ma vogliatemi bene ugualmente: cercherò di essere più presente in futuro, magari con meno contenuti, ma più regolari nel tempo! In questa puntata parleremo di clima. Inizieremo con un commento all'ultima intervista rilasciata da Claudio Descalzi, ad di ENI, a La Stampa, per poi andare ad indagare le risorse minerarie (ferro, rame, cobalto, litio e terre rare) custodite nel suolo dell'Afghanistan. Una ricchezza che potrebbe fare gola a molti, ma la cui estrazione è tutt'altro che semplice. Ciò che invece non dovrà più essere estratto è rappresentato, dai combustibili fossili. Quanto metano, carbone e petrolio dovremo lasciare nel sottosuolo per vincere la sfida climatica e contenere la temperatura media globale entro i 1.5°C? Prova a rispondere un nuovo articolo pubblicato su Nature. Infine, per la rubrica "Chiedilo a Frank", andremo a scoprire che cosa sta succedendo in Madagascar, dove una siccità senza precedenti e indissolubilmente legata al cambiamento climatico, sta condannando milioni di persone alla fame. Esseri umani che non hanno contribuito all'innalzamento delle temperature, ma che sono i primi a pagarne le conseguenze. Ascolta la puntata su Spotify cliccando sul link in bio! Se vi è piaciuto il podcast, condividilo e parlane con i tuoi amici. Segui Amo la Chimica su Facebook e Instagram. #podcast #cosabolleinbeuta #chimica

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Lobiettivo del secolo è il contenimento del riscaldamento medio globale entro i 2°C rispetto al periodo pre-industriale e per farlo è imperativo arrivare ad emissioni "nette zero" entro il 2050. Esistono diversi modi per raggiungerlo, tutto dipende da quanto in fretta abbandoneremo i combustibili fossili e di quanto cambierà la nostra domanda di energia. Il rapporto speciale pubblicato nel 2018 dall'IPCC, identifica quattro scenari possibili: P1, P2, P3 e P4. Senza entrare nel dettaglio, possiamo pensare a questi scenari come una sfumatura dal più ottimista (P1), nel quale grazie a innovazioni tecnologiche e sociali, vi sarà una riduzione del 32% della domanda di energia nel 2050 rispetto al 2010 e che l’energia primaria dai fossili diminuirà considerevolmente, al più pessimista nel quale l’abbandono dei fossili è meno rapido, la richiesta di energia aumenterà del 44% rispetto al 2010 e le tecniche di cattura di anidride carbonica avranno un ruolo dominante. In ognuno di questi scenari, l’IPCC riporta i cambiamenti in termini percentuali rispetto al 2010 delle varie fonti energetiche. Nel P1, ad esempio, la quota delle rinnovabili nella produzione di energia elettrica sul totale dell’elettricità prodotta è prevista al 77% (oggi siamo al 29%), mentre l'offerta di energia dal nucleare dovrà aumentare del 150% rispetto al 2010. Avete letto bene: il contributo nucleare dovrà più che raddoppiare. Tanto più è lento l’abbandono dei fossili, tanto più diminuisce la rilevanza delle rinnovabili (sempre sopra il 60% sul totale dell’elettricità prodotta) e aumenta la necessità di installare energia nucleare (fino ad un +468% nello scenario P4, sempre rispetto al 2010). Anche il più recente rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia sottolinea l’essenzialità del nucleare, con particolare riferimento ai possibili sviluppi dei nuovi reattori di IV generazione, per raggiungere gli obiettivi di netto zero al 2050: “ridurre il ruolo dell’energia nucleare e della cattura di carbonio, richiederebbe una crescita ancora maggiore di fotovoltaico ed eolico, rendendo il raggiungimento dell’obiettivo di emissioni nette zero più costoso e meno probabile”. #radicalchic

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Dopo le vacanze estive torna il podcast di Amo la Chimica! Sto cercando di rientrare a pieno regime anche con i post, ma nel frattempo vi dovrete accontentare della mia voce! Dopo tre settimane di stop, le notizie scientifiche di cui parlare sono davvero tante, ma il tempo a disposizione come sempre è limitato. Quindi ho deciso di soffermarmi su una notizia in particolare, che riguarda uno studio appena pubblicato su Nature e che mette in evidenzia gli impatti positivi che il protocollo di Montréal ha avuto nel contenere l'aumento di CO2 in atmosfera. Vi chiederete, ma questo trattato non riguardava la messa al bando di alcuni gas, i CFC, che distruggevano l'ozono stratosferico? Sì, ma per la prima volta sono stati studiati gli effetti di una possibile mancata adozione di questo trattato sulla salute delle piante e sugli effetti che una maggiore radiazione ultravioletta avrebbe avuto sulla fotosintesi. I risultati sono molto interessanti e dimostrano come questo trattato sia, ad oggi, l'esempio più vincente di cooperazione internazionale per la tutela ambientale, i cui effetti ci potranno aiutare nella lotta contro il cambiamento climatico. Nella puntata troverete anche un mio breve commento sul come sono stati comunicati dai media i risultati dell'ultimo rapporto dell'IPCC e su un altro evento avvenuto recentemente: la pioggia nel punto più alto della Groenlandia. Rispondo infine a Federico nella rubrica "Chiedilo a Frank" alla sua domanda: qual è il ruolo del cambiamento climatico nella diffusione delle specie aliene? Tutto questo su Spotify! Buon ascolto! #podcast #cosabolleteinbeuta #chimica

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In questa nuova puntata di "Cosa bolle in beuta" parleremo delle alluvioni che hanno colpito in nord Europa e del perché si inseriscono (ahinoi) perfettamente in un contesto di cambiamento climatico. Continuiamo poi con la notizia che ha fatto più discutere la settimana scorsa, vale a dire il fatto che la Foresta Amazzonica stia in realtà emettendo anidride carbonica (circa un miliardo di tonnellate all'anno, come il Giappone), anziché catturarla. Quali impatti sull'ambiente e sulla stessa economia del Brasile? Se la natura ha nella fotosintesi la "soluzione" per catturare la CO2, anche l'uomo cerca di trovare le sue di soluzioni attraverso processi di Carbon Capture. Come denunciano due ricercatori su Environmental Research Letters, le decisioni politiche rischiano di fare troppo affidamento a queste tecnologie, per lo più sperimentali e con ancora molte incognite. Ma se la tecnologia fallisse? Per questo occorre dare priorità alla riduzione delle emissioni. Per fare il punto su queste tecnologie, ho fatto alcune domande a Pier di @alchemy_on_air : si tratta di tecnologie sicure? Esistono alternative al semplice stoccaggio della CO2 nel sottosuolo? Per commentare queste e altre notizie scientifiche, vi ricordo che potete mandarmi un messaggio vocale dalla sezione "Chiedilo a Frank", dal sito amolachimica.it (LINK IN BIO!). Potete ascoltare il podcast su Spotify! Buon ascolto! Frank #ambiente #forestamazzonica #climatechange #podcast #cambiamentoclimatico

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